Fassati, pioniere dei trapianti: “Bastano poche vodke per rovinare il fegato”
Il professor Luigi Rainero Fassati ha cominciato a frequentare la Clinica Chirurgica al Padiglione Monteggia del Policlinico a 22 anni come allievo interno al IV anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia e ha continuato a svolgere la sua attività in Ospedale e Università raggiungendo il ruolo di professore ordinario di Chirurgia e direttore del dipartimento di Chirurgia e Trapianti fino a 70 anni quando si è ritirato per raggiunti limiti di età.
È stato un pioniere nel campo del trapianto di fegato e per la sua eccellenza in questo settore ha ricevuto l’Ambrogino d’oro il 7 dicembre 1999 ed è stato annoverato tra i “Grandi Medici del Policlinico” il 13 giugno 2019.
Ha scritto 11 romanzi pubblicati da Sperling e Kupfer, Longanesi e Salani. Il primo, “Avanti un altro” ha vinto il premio “Selezione Bancarella”.
Dal 2007 ad oggi tiene delle lezioni nelle scuole medie e superiori di Milano e Provincia sui “Danni da abuso di alcol nei giovani”.
Per gentile concessione della giornalista Roberta Scorranese, condividiamo l’intervista al professor Fassati pubblicata sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2021 (https://www.corriere.it/cultura/trend-topic/notizie/fassati-pioniere-trapianti-non-c-sanpa-alcolisti-perche-dbb6a0c6-5cc6-11eb-9977-f37e49990f1d.shtml)
Professore, dovrei chiamarla "marchese"?
Ma per carità.
Eppure lei discende dalla famiglia Fassati, antica aristocrazia medioevale, due feudi in Monferrato, possedimenti in Franciacorta.
Ah, i feudi sono cose di tempo fa! Certo, da parte di padre ci sono queste origini aristocratiche, tanto è vero che lui fu il primo in linea genealogica a lavorare. Tenga presente che in quelle famiglie un tempo lavorare era un’onta. Ma da parte di madre no, tutt’altra storia quella.
I Nathan. Famiglia ebrea colta, intellettuale.
E di tradizione liberale, mazziniana. Ernesto Nathan, che fu sindaco di Roma, era il cugino di mia nonna, Sarina. Una donna elegante e coraggiosissima, che quando le morì il primo figlio in un tuffo finito tragicamente si vestì di nero e non smise mai il lutto. Lei, all’indomani della promulgazione delle leggi razziali non si mosse da Milano, anzi si affacciava al balcone con fierezza. Fino a quando, al secondo tentativo di sequestro, suo figlio la prelevò a forza e la portò in un posto sicuro.
Però lei è nato nel 1936 e in prima elementare come tutti i bambini fu costretto a vestire la divisa Balilla.
Sì dovevamo farlo. Quando la nonna mi vide abbigliato in quel modo mi fulminò con lo sguardo: “Non mostrarti più così conciato in mia presenza”, mi disse e io ne rimasi profondamente colpito. In casa si parlava solo inglese, perché era la lingua della famiglia materna. Con grande gioia di mio padre: non capiva una parola, dunque a tavola non era costretto a parlare. Mio nonno paterno, invece, ad un certo punto sperperò il patrimonio di famiglia. Alla sua morte mio padre chiamò Fernanda Wittgens, sua amica e all’epoca direttrice della Pinacoteca di Brera, per vedere se il suo museo poteva essere interessato all’acquisto di due dipinti del pittore rinascimentale Moretto da Brescia, opere che nonno ci aveva lasciato.
E come andò a finire?
Wittgens guardò le tele, le esaminò sul retro poi disse a mio padre: “Questi quadri sono stati dipinti dieci anni fa”. Altro che Rinascimento bresciano! Mio nonno, in sintesi, si era venduto gli originali, che adesso stanno uno al Metropolitan di New York e un altro a Londra. E poi aveva fatto fare due falsi da lasciarci in eredità.
Poi, ad un certo punto, Luigi Rainero Fassati ha scombinato i piani della sua famiglia, che progettava di metterlo a capo dell’amministrazione delle terre (d’altra parte, un aristocratico che cosa doveva fare se non amministrare i possedimenti?) e ha scelto di fare il medico chirurgo, sorprendendo (per non dire “scandalizzando”) tutti e lavorando per 45 anni in una struttura pubblica, il Policlinico di Milano, dove ha diretto il Dipartimento di Chirurgia e dei Trapianti. Ha raccontato tutto nei tanti libri pubblicati per Longanesi e Salani. Leggete "Mal d’alcol" e "Un tempo per guarire", troverete spunti molto interessanti.
Come presero questa decisione?
Diciamo che ne furono sorpresi. Ma l’idea mi venne quando, a soli quattro anni, appoggiai la testa sulla pancia di mia madre, che aspettava mia sorella Yula, e venni preso da un gran desiderio di vedere la creatura all’interno, aprendo la pancia.
E all’Università, a Milano?
Ero due volte emarginato. Perché? Da una parte perché gli studenti mi prendevano in giro con sfottò del tipo “Ah, è arrivato il marchese”. E dall’altro perché facevo parte di un gruppo di ricerca visto come bizzarro e un po’ fulminato. Studiavamo i trapianti, all’epoca considerati una cosa assurda a partire dalla stessa medicina e per giunta lavoravamo osservando i maiali.
Perché tutta questa resistenza iniziale nei confronti dei trapianti?
Soprattutto per la questione della morte cerebrale, una cosa che divide ancora oggi nonostante tutti i progressi fatti. Poi, sul piano strettamente medico, c’era la questione della terapia anti-rigetto. C’era un attrito fatto di etica e scienza.
Lei però ad un certo punto si trasferì negli Stati Uniti, a Pittsburgh, a lavorare con Thomas Starzl, colui che nel 1963 fece il primo trapianto di fegato umano.
Un’esperienza molto importante. In quel posto c’erano ricercatori e chirurghi da ogni parte del mondo. Ho assistito al primo xenotrapianto in assoluto, il fegato di un babbuino impiantato sul corpo di un uomo. I primi quindici giorni andarono bene poi però evidentemente per degli errori nella terapia anti-rigetto - peraltro eseguita su un paziente immunodepresso - le cose si incepparono. Era tutto da scoprire, da esplorare. Anche il dosaggio della terapia: oggi ci si regola bene ma allora non sapevamo nulla e così si provava, si andava a tentoni. E poi si partiva in elicottero o sugli aerei militari con una valigetta piena di ghiaccio per andare a prendere un fegato dall’altra parte degli Stati Uniti. Alla dogana dichiaravamo “Un liver”.
Come si affrontò il dilemma (delicatissimo) della morte cerebrale? Perché ricordiamo che solo in caso di morte cerebrale accertata è possibile prelevare un organo come il fegato.
Provvidenziale fu l’apertura da parte di Montini, futuro papa, cosa che distese i rapporti con la chiesa. Da quel momento le cose diventarono più facili. Pensi solo ai rapporti con le suore, con le infermiere religiose. Per quanto riguarda il nostro gruppo di ricerca all’università a lungo rimase insoluto il nodo dei rapporti con gli animalisti, specie per gli esperimenti che facevamo con i maiali. Ad un certo punto invitammo una delegazione di animalisti a controllare quello che facevamo e come lo facevamo. Mostrammo loro che curavamo gli animali sui quali facevamo ricerca, addirittura mettendoli in terapia intensiva se necessario. Però mi faccia dire una cosa.
Prego.
Come si pensa che saremmo riusciti ad avere il vaccino anti-Covid senza una sperimentazione sugli animali? Un conto è quella finalizzata ai cosmetici, e su questo non sono d’accordo nemmeno io. Ma non si può essere ipocriti: senza i test sugli animali oggi non avremmo né antibiotici né vaccini. Detto questo, sono dell’idea che si debba finanziare il più possibile la ricerca affinché si possa ridurre al minimo la sperimentazione sulle cavie, certo.
Ad un certo punto lei ha insegnato, in Italia. E negli anni della contestazione.
Ricordo che quando spiegavo l’ulcera duodenale almeno uno si alzava in piedi dicendo che erano malattie causate dal capitalismo. Però, sotto sotto, io stavo dalla parte di quegli studenti. Il mio ambiente, quello aristocratico, non sempre è stato tenero con me. Pensi che anche quando ero diventato abbastanza noto come chirurgo, i parenti mi affidavano conoscenti da operare, ma se erano loro ad aver bisogno di un intervento mi chiamavano e chiedevano: “Conosci uno bravo?”
Lei ha trapiantato qualcosa come 690 fegati. Mi racconta il suo primo trapianto?
Era un vigile del fuoco, malato di tumore. Oggi in un caso simile non si consiglierebbe il trapianto. E infatti, se l’intervento inizialmente riuscì bene poi il cancro si riformò.
E il primo donatore?
Lo ricordo benissimo, una ragazza di appena 25 anni, morta in un incidente stradale. Era di Como e chiedemmo con delicatezza alla famiglia di portare qui il corpo perché eravamo all’inizio e non ci si fidava del trasporto di organi. Pagammo noi i funerali, di tasca nostra, mi sembrò il minimo. Ma ricordo anche una madre di Verona, che donò gli organi del suo bambino. Sulla valigetta che conteneva il fegato conservato nel ghiaccio volle mettere tre rose. Nei donatori c’è una umanità che la mia natura asciutta e pragmatica di medico non mi permette di raccontare così bene. Forse è anche per questa esigenza di racconto che scrivo romanzi, chissà.
Professore, lei da anni incontra gli studenti e spiega loro che l’alcol danneggia il fegato in modo spesso irreversibile. Ne ha incontrati oltre 60 mila. Quando ha cominciato questo viaggio e perché?
Ho capito che bisognava parlarne una sera in cui davanti al Policlinico un gruppo di giovani hanno letteralmente depositato, scaricato una ragazza di appena 17 anni, in fin di vita. Lei era astemia ma si era lasciata convincere a bere tre vodke, appena tre. Tanto bastò per distruggere le cellule del suo fegato, che dovette essere trapiantato e così lei si salvò. Molti non sanno che negli astemi basta pochissimo per andare all’altro mondo. E quelli che bevono regolarmente vanno incontro ad un progressivo deterioramento del fegato fino alla cirrosi e alla morte.
È un tema antico. L’alcol non viene percepito come una droga.
È un grandissimo tema. Nelle scuole gli insegnanti mi dicono di non affermare quanto sto per dire ma è la verità: a volte bere è più dannoso di uno spinello. Non entro nel merito dei danni degli spinelli, per carità, ma è innegabile che non c’è mai stata la stessa attenzione sociale nei confronti dell’alcol, percepito come un costume familiare, che magari nelle famiglie si tramanda da generazioni.
Eppure tutti conosciamo qualcuno morto di cirrosi. Ho la sensazione che quelle per alcol alla lunga scivolino nel novero delle «morti naturali», mentre quelle per altri tipi di droga no, restano un marchio.
È questo il punto. L’alcol è diffuso in modo allarmante tra gli adolescenti e non serve nemmeno ricordare che i divieti nell’acquisto sono ridicoli, perché basta mandare in avanscoperta un diciottenne. Cruciale è l’educazione in casa e a scuola, la trasmissione di una consapevolezza e di un buon esempio. Però facciamoci una domanda: perché in Italia non è nata una San Patrignano solo per alcolisti?