Quando il sangue donato arriva dove nessuno può

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Abbiamo fatto una piacevole chiacchierata con Rino Bregani, medico internista al Policlinico di Milano e volontario del Soccorso Alpino e Speleologico. Rino ha una lunga esperienza alle spalle, tra ospedali, montagne, grotte e contesti internazionali come l’Africa, dove ha operato per ben 5 anni, e ci racconta cosa significa fare medicina d’urgenza in situazioni estreme.
 

 

Oltre ad essere internista, svolge anche attività di volontariato come soccorritore nel Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico. Ci racconta qualcosa di lei e del suo percorso?
 

Sono internista e lavoro al reparto Granelli del Policlinico di Milano, dove ci occupiamo principalmente di pazienti con problemi ematologici come anemie, emorragie, ma anche situazioni più complesse. Parallelamente, faccio volontariato come soccorritore nel Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, sia in ambiente montano che in grotta: c’è una forte richiesta di personale sanitario nel soccorso speleologico, la presenza di un medico sul posto può fare la differenza in situazioni critiche, dove il tempo e l’accessibilità sono ovviamente limitati.


 

Le è mai capitato di intervenire su un’emergenza in cui il paziente non potesse essere spostato, ma avesse urgente bisogno di una trasfusione di sangue? In questi casi, quali sono le procedure da seguire?
 

In genere, in grotta, le emergenze ematologiche sono molto rare. La maggior parte degli incidenti sono di tipo traumatologico, ma va detto che il contesto stesso della grotta rende molto difficile l’intervento tempestivo: spesso passano molte ore prima che arrivi il soccorso.
C’è però stato un caso eccezionale in Turchia: uno speleologo americano ha iniziato a vomitare sangue a più di un chilometro di profondità. Probabilmente si trattava di un’ulcera gastrica, non possibile da diagnosticare in quel contesto. Ha perso moltissimo sangue. In quel caso è stato fondamentale il supporto della protezione civile turca. Abbiamo impiegato dieci ore solo per raggiungerlo. Per le trasfusioni, abbiamo usato sacche di sangue universale 0-, sia globuli rossi che plasma, preparate d’urgenza. Lui si è inizialmente stabilizzato, poi ha avuto una complicanza, ma nell’arco di 12 ore siamo riusciti a far arrivare altro sangue. L’abbiamo riportato in superficie dopo 4 giorni. È stato un intervento straordinario, mai affrontato prima: tra l’allarme e l’uscita dalla grotta sono passati dieci giorni.

In Africa, invece, la pratica trasfusionale è quotidiana e assolutamente salvavita. Le emergenze principali sono legate alle complicanze gestazionali, con una mortalità materno-infantile altissima, ma anche ad aborti, anemia da carenza di ferro, malaria etc. Là, però, trovare sangue scomposto nelle sue componenti (globuli rossi, plasma e piastrine) è molto difficile: quasi sempre si trova solo sangue intero, e raramente plasma. È una risorsa scarsa, ma preziosissima.


 

In questi casi come viene trasportato il sangue sul luogo dell’incidente? E perché in Italia ambulanze ed elicotteri non sono dotati di sacche di sangue per le trasfusioni di emergenza?
 

Nel soccorso alpino, elicotteri e ambulanze generalmente non partono con sacche di sangue a bordo, poiché le indicazioni per l’uso di sangue fuori dall’ospedale sono molto limitate. Le trasfusioni richiedono un contesto controllato: è necessario conoscere il tipo di sangue, disporre di strumenti per monitorare il paziente e gestire eventuali reazioni.

Inoltre, ci sono criticità logistiche legate alla conservazione, alla compatibilità e alla scadenza del sangue. In situazioni di emergenza, è molto più utile intervenire rapidamente, stabilizzare il paziente e trasportarlo in ospedale, dove potrà ricevere il trattamento adeguato entro una trentina di minuti. Fermarsi sul posto per trattare uno shock emorragico potrebbe essere controproducente: il tempo in queste situazioni è fondamentale. Solo in casi eccezionali e ben organizzati, come quello della Turchia, ha davvero senso intervenire sul posto con sangue a disposizione.


 

In base alla sua esperienza sia come soccorritore che, come ematologo, quale messaggio vorrebbe dare ai nostri donatori di sangue?
 

Il sangue è un vero farmaco salvavita, vale più di qualsiasi altro, perché è unico: non si può fabbricare, non si può sostituire. È una delle pochissime cose che, nella sua singolarità, aiuta qualcuno. Un bambino, una madre, un anziano.

Tutto si basa ancora sulla volontarietà, sul gesto umano di donare una parte di sé per qualcuno che non si conosce. È un atto di grande altruismo. In certi contesti, che io stesso ho sperimentato, come in Ciad o in Etiopia, la sacca di sangue è indispensabile per sopravvivere. Ma lo è anche qui, tutti i giorni, in ogni pronto soccorso, in ogni sala operatoria. Donare sangue vuol dire donare vita. Non è una metafora, è realtà.

 

“(...) Il mio sangue, rosso scuro, fluido ricco, ben nutrito. Il liquido che scorre dall’ago impiantato nella vena del mio braccio dalla pelle chiara, per poi servire a più bambini, entrando da altri aghi che, come chiudendo una catena di umanità, penetravano in pelli dal colore mogano. Quanto si può capire della identità tra le genti, tra gli africani, europei e asiatici, gente dalla pelle scura, rosa o giallastra, vedendo come lo stesso fluido vitale, il liquido che presenta sempre lo stesso colore, si può trasferire da un corpo a un altro, pure così diverso, generato in un paese così distante, per portare vita e salvezza”.

(Questo paese meraviglioso e disgraziato - Enrico Rino Bregani)

E voi, Amici donatori, conoscete bene il significato di queste parole: con il vostro gesto concreto GRAZIE PER ESSERCI, con una presenza che fa davvero la differenza.